Bolle di sapone

BOLLE DI SAPONE
Italian Version of “Soap Bubbles”

 

"To accept is to receive, to receive is to hold, to hold is to embrace, to embrace is to hug, to hug is to love, to love is to love, to love, to love."

- Marie Thiam

Giorno 1528
30 Aprile 1978

Vi assicuro che non sono un mattoide. Non sono un folle, ve lo assicuro. E quei canti…quei canti non li sto inventando, ve lo giuro. Io sono un uomo di cuore. Non ho mai fatto male ad un'anima, e invero le anime non le ledo da quando sono bambino. Io le anime le adocchio soltanto e non le importuno, poiché è così che mi ha catechizzato e tirato su mia madre, la mia dolce genitrice che mi ha maturato tanto premurosamente per due decenni, che mi portava all'ateneo stringendomi stretto stretto il mignolo destro, che mi agghindava con camicie di orsetti scarlatti e api color cobalto. 

Mia madre…mia madre che mi ninnava quando non cessavo di lagnarmi delle disgrazie della vita, e che mi reputa un bonario perché io lo sono davvero! È tutta colpa di quei canti, quei trilli… quei gorgheggi! Mi inzaccherano i sogni, mi sciupano le lacrime e non riesco più ad appisolarmi da settimane. Loro mi hanno incitato a farlo, ma io non l'ho mai voluto, credetemi. Non sono un pazzo e potete interrogare mia madre che mi ha sempre compreso. 

Quei fischi li ho sempre tenuti a bada in qualche modo, come un uomo razionale, come un umanista e mai ho peccato di empietà. Invocate mia madre e persino lei vi ribadirà che sono state le voci nelle sue pupille a freddarla, non io! 

Non io. Non ce la faccio più, miei cari lettori. Penserete che io sia davvero un pazzo, e forse un giorno potrei diventarlo, ma fino ad ora non ho fatto nulla di male. Stimate la verità che vi dico: le voci nella mia testa, quelle che mi rimproverano e mi accusano di un crimine che non ho commesso, sono loro quelle che dovrebbero sguazzare in queste celle! Sia questo il momento opportuno per offrire siffatte parole come lamento dell'amore amaro di mia madre che un tempo si è presa cura di me e non ha mai desiderato questo tipo di esito dal suo amato figlio. 

Che Dio abbia pietà di tutti noi. 

Ecco perché sono confinato qui, in questa fetida stanza, dove ho cercato di umiliare la mia mente per sopravvivere. 

Muto. 

Ora ozio nel buio di questa zona crepuscolare dell'istituto psichiatrico e contemplo lo stato della mia anima: un'espiazione per un peccato che non ho mai voluto commettere. 

Perciò prego per giorni migliori, per un futuro migliore. Un futuro senza le apparizioni di quelle urla che mi torturano giorno e notte, senza quei trilli tremanti che mi perseguitano assiduamente. 

Chissà cosa succederebbe se ci incontrassimo di nuovo, se li affrontassi di petto o se rabbrividissi di fronte alle loro insidiose armonie…


Giorno 1529
1 Maggio 1978

L'ho reiterato all'investigatore che mi ha interrogato e a diversi medici che mi hanno torchiato: non sono pazzo. Certamente non lo sono. 

Non avevo nessun motivo di eliminare la mia adorabile madre che non rivedrò mai più e che mi ha tagliato le unghie tante volte e con cui ho passeggiato sulle colline verdeggianti. Lei... mia madre che non mi ha mai criticato o privato di nulla. Ira e affetto non possono coesistere, non c'è inimicizia nel mio cuore, no! Quelle ragnatele, quelle tende di ragni polverose, quelle allucinazioni che ancora non riesco a dimenticare sono le uniche cose a cui penso. E so di soffrire di una sorta di insonnia, molesta, urticante. 

Tuttavia, sono un uomo onesto che non oblia mai un volto, che non sorvola affatto una promessa, che non ciarla a vanvera e che, vi prego di credermi, non è affatto un mattoide. Eppure, sono stato trascinato in un manicomio non per quell'incidente ma per volere di quelle persone, quei medici e quegli azzeccagarbugli che non dimostrano di comprendermi. 

Ridacchiano e sogghignano alle mie parole, scuotono la testa, non vogliono udire quello che dico. Mi condannano a morte anche se non meriterei l'oblio. Perciò permango qui, in questo limbo e con queste grida e risate che mi saturano la testa. Non riesco a dormire la notte e strepito quando sono solo. Eppure, nonostante questi sintomi di un morbo arcano, non sono lunatico. Questi dolori passeranno con tempo e remissività e fino ad allora resterò in questo luogo lontano dalle duttili mani di mia madre e dal mio nido. Capisco che tutto questo possa parere paradossale ma vi invito a rimirare la verità con i vostri occhi. 

L'angoscia che provo è palpabile, non è impostura. È cagionata dalla fredda indifferenza che induce all'emarginazione, la stessa clausura che si può snidare in un babele, in un manicomio. Pertanto, mi interpello a voi con interiezioni, non sfrenate, ma avvilite cercando di farvi capire ciò che ho cercato di trasmettere per tutta la vita ma che si è infranto contro un muro apatico. La mia esistenza è a rischio, così come la mia sanità mentale. Ho bisogno che tutti si rendano conto che non sono alienato, che non sono altro che un'anima che brama elogi e comprensione. Non sono un'arpia che merita le sbarre di una prigione frenetica. 

Prestate attenzione a ciò che il mio cuore sgola piuttosto che a ciò che il mondo estrinseco vuole che io dichiari. A coloro che pronunciano il mio nome con cinismo e sarcasmo: vi imploro di emendare le vostre percezioni e di avere fede quando sostengo di essere razionale. Vi chiedo solo di portarmi via, di condurmi via da questa miseria. Aiutatemi a reperire me stesso, a zampillare distante da questo tartaro. 

Prometto a voi, a tutti voi, che non commetterò mai falli. Raggiungerò le stelle, spolmonerò, gemerò e mi lagnerò per far sì che la mia voce venga ascoltata. Diventerò il Peter Pan dei miei deliri, diventerò colui che scova il suo cammino ma non lo smarrisce. 

Domando premura e misericordia. 

Riportatemi in vita!


Giorno 1530
2 Maggio 1978

I giurati, gli avvocati, i medici e le infermiere: nessuno mi prende sul serio. 

Eppure, sono ancora qui a percorrere un sentiero roccioso esistenziale. Mi aggrappo ancora a quell'ultimo briciolo di speranza, la speranza che un giorno mi svincolerò da questi confini barbari, immune dal batticuore. 

Non capisco nemmeno per quale motivo queste armonie abbiano iniziato a martoriarmi. So solo che hanno incominciato quando mio padre ha abbandonato me e la mia amorevole genitrice, reduce e a digiuno di speranza per colpa di quell'impresario abietto, quell'ebete che l'ha deviata e costretta a concepire una rediviva polla di allegria: il suo amabile e mite figlio. 

Mio padre ammorbava l'aria di un misto di tabacco e scotch. Si candeggiava in quegli aromi e le sue cravatte apparivano ruvide quanto la carta vetrata e le sue mani serravano le mie con una tale fermezza, afferrandomi le spalle e conficcandomi le unghie nella schiena. Era sempre così assordante e atipico. La sua enigmaticità che mi fasciava in una bruma greve, una coperta afosa e soffocante, è qualcosa che rammento vividamente. Ricordo lo scricchiolio delle assi del pavimento e la tosse di mio padre mentre poltriva. 

Nonostante ciò che fece a me e a mia madre, nessuno lo crede mattoide. Non è un tale da manicomio ma un essere intricato con impulsi e assili propri. 

Ma io? 

Non sono demente. 

Sono un uomo alla ricerca di quiete e ordine in mezzo a un mondo maldisposto. Sono un uomo che cerca accanitamente di dare senso a ciò che mi circonda, un uomo che fa del suo meglio. E sussisto domato dalla mia emarginazione, guerreggiando con me stesso per venire a patti con le mie liti morali, per soppesare l'armonia tra mente e anima, per aggrapparmi al cosmo. 

Sì, sussisto avendo fede nelle mie virtù, in un domani migliore. Sono stato il patrocinatore di mia madre, la sua roccia in una bufera impetuosa. Ma chi sono ora? È forse veritiero tutto quello che affermano di me? Uno schizofrenico, un degenerato, un pericolo per se stesso e per chi lo circonda? E se è così, qual è il prezzo di questa follia? Cosa devo fare con un simile fardello? Eppure, so che non è vero. Non sono pazzo, tanto meno crudele. E finché rimarrò ingabbiato, lotterò per la mia innocenza.

Fino alla fine, fino a quando tutti ascolteranno la mia storia e cesseranno di biasimarmi balordamente. 

Resuscitatemi ancora una volta...

Giorno 1531
3 Maggio 1978

Definire questo posto un lerciume sarebbe un eufemismo. 

Il fetore di piscio e di moccio imbottisce l'aria, e i piagnistei, gli stridi degli altri pazienti si incorporano alla cacofonia. Non riesco a spiegarmi per quale ragione qualcuno opti di lavoricchiare qua, cinto da grida, schiamazzi e gemiti. Il manicomio è infervorato da guaiti e mugghi, fonemi che inorridirebbero perfino le anime più assodate. I pazienti non vestono alcun senso di compostezza, nessun minuzzolo di dignità. 

Sono tutti disossidati a nudi gusci di sé stessi, accalappiati in questo dedalo fosco e invasato. È una vece in cui uomini e donne giudicati irragionevoli sono rinchiusi come bruti in stia, rinnegati ad ammuffire mentre il mondo estrinseco perdura senza di loro. I degenti che mi attorniano sono un vivido memorandum di ciò che può occorrere ad un qualcheduno vagliato pazzo dalla collettività.  

C'è Mary che cinguetta filastrocche perpetuamente tutti i giorni seppur abbia valicato i cinquant'anni. Impietosiscono i suoi basettoni e il suo capo mezzo rasato, i tendini del collo e delle braccia così tesi che paiono potersi snodare da un momento all'altro. Inchioda lo sguardo sulle sue dita che sdruciono postille dalle croste sul derma. Cinge panni logori, tinti di celadon e sufficientemente spartani da eclissare i molti lividi riscossi dal personale.  

Poi c'è John, convinto di essere un leone e latra a chiunque si avvicini troppo. Il volto di John è stizzito, crucciato: un leone farcito di erba medica. Le piaghe prosperano come pois lilla sulla cimosa cutanea, le borse sotto gli occhi si afflosciano in una polpa di orchidee. Non si preoccupa di aprire gli occhi: sa che siete lì. Odora di guasto e il lezzo dei suoi pori umettati e squamati trasuda e gocciola come uno scarico. 

John è erculeo e i suoi muscoli si pompano e si aggrottano. Sfrega il viso contro i tramezzi e il creato prende vita attraverso il tatto; il cemento è da mille insolite sfumature di pietra. La sua bocca eternamente sbarrata con una pozza di bava tra le labbra, un batuffolo di capelli incastrato tra le gengive, un avanzo di capelli lungo e sottile: i resti di un bambolotto. 

E, naturalmente, c'è Patrick che passa le sue giornate a scacciare insetti fiabeschi che leccano i suoi orecchi e i palmi delle mani tremanti sotto il cappotto di lana grigio. Porta una sciarpa vermiglio sfilacciata e a brandelli: una piuma tostata. Eppure, sono i suoi occhi, quelle schegge di grigio-blu crudi e pomposi, quelle ferite di ghiaccio fuso, che più lo denotano. 

Ha sacche chiare sotto gli occhi a forma di cesto di vimini, e un naso molato e prominente come la prua di una nave, come il becco di un falco che volteggia sulla preda. E i suoi molari: rustici, logorati da una schiera di vermi. Il resto del viso è color tuorlo e i capelli, o ciò che ne rimane, hanno un alone marmoreo. 

Cerco di tenermi a distanza da loro, pavento che la loro insania possa infettarmi. Ma, a volte, quando mi sveglio di notte, sento i loro sussurri, le loro beffe che cercano di ventilarsi nella mia mente come una vite parassita. Mi chiedo per quanto tempo ancora dovrò recriminarmi qui. Un anno? Due? 

Stanno cercando di abbattermi, di ridurmi in polvere, di farmi dimenticare chi sono veramente. 

E io giuro sulla testa di mia madre che non accondiscerò mai.


Giorno 1532
4 Maggio 1978

Mi hanno strascicato in una stanza blu. Le pareti erano istoriate da tinte fresche, tinture insolite: blu caliginosi e dispotici, tonalità e ombre adimensionali. Due medici con camici bianchi malvestiti erano stanziati lì e parlottavano tra loro, i loro volti velati dalla luce appariscente sul soffitto. Nemmeno gli occhi di un sicario atto avrebbero potuto permeare il sudario di barlume bellicoso che ti impone di spremere le pupille e fissare altrove. 

Ero una fiera al laccio, circoscritto dal loro esanime cinismo e dai loro attrezzi clinici preordinati a sezionarmi. Mi hanno incatenato a una sedia eludendo il mio dissenso e poi mi hanno schiuso la bocca e travasato le pillole in gola. Gli effetti furono immediati. Il mio corpo si contorceva e si divincolava per il patema mentre le scosse elettriche traghettavano le mie cellule. 

Avevo perso il controllo della vescica, grondavo sangue da naso e dalle orecchie. Il tormento mi ammaccava in una morsa di vampe e gelo. Per un breve secondo, la mia visione si irradiò più del sole: un disco apogeo di spettrale grazia rinchiuso in aste incandescenti che sferrava smilzi filamenti di energia vermiglia e oro. 

Sono crollato sul pavimento, boccheggiando. Se ne andarono senza dire una parola, lasciandomi solo. Non so quanto tempo passò prima che mi tranquillizzai. Ardevo dappertutto e mi ci volle un miracolo per serpeggiare fino a un angolo e raggomitolarmi lì, gemente. 

La sapidità metallica del plasma e della bile, il gusto mordace dell'umiliazione, la rattristante consapevolezza di non poter evadere: sono in stritoli, con frammenti di anamnesi che sembrano non pertinenti. L'aria è ancora fitta e umida, ed ogni sua goccia è stata spremuta e concentrata in questo unico punto. 

Sto...delirando.


Giorno 1533
5 Maggio 1978

Rigurgito viola. 

È come una gelatina densa e vischiosa che mi cicatrizza la gola mentre risale. Ogni volta che vomito, lo stomaco mi si attenaglia dolorosamente e il mio corpo è bastonato da spasmi. Il colorito è familiare e allo stesso tempo avulso. Mi stanno avvelenando dalle interiora. 

Gli altri pazienti del manicomio ora mi eludono, allarmati da qualsiasi morbo o mania io abbia. Sembra che anche il personale stia prendendo spunto da loro. Nessuno visita più la mia stanza, nemmeno per mondare o portarmi i pasti. Non so per quanto tempo ancora potrò persistere.

La mia bocca è un buco nero dilatato, le labbra sono incrinate e contuse. La mia lingua è turgida, le mani  non sembrano essere mie. Sento la consistenza scabra della pelle butterata, le mie dita piatte e levigate. La gola è riarsa e pesta. Non posso deglutire, stimola solo uno spasimo acuto che mi trapassa il collo, penoso come mille lame di rasoio che ti affettano i nervi. 

Le cicatrici strette contro la mia cute cruda, la sensazione delle lenzuola sotto i miei polpastrelli, la freddezza del materasso del letto, gelide ringhiere metalliche del letto e del supporto per la flebo. Ho gli occhi iniettati di sangue, ostruiti da uno strato colloso e rugiadoso, la vista spaiata e sfocata. I colori si riducono al bianco, al nero e a sfumature di grigio.

Ogni volta che apro gli occhi, le pareti sembrano tapparsi su di me. 

Questa stanza somiglia sempre più alla mia bara. 

Rotea;  incespico. 

Le pareti si deturpano e si contorcono, sono vive e fiatono. Le pareti confabulano, i loro echi distorti mi rimbalzano sul cranio. A malapena riesco a ricordare il mio nome.

E c'è qualcos'altro qui con me, qualcosa di tetro e torvo che mi mormora all'orecchio stomachevoli profezie: non evaderò mai le mie sciagure, i medici persevereranno a brutalizzarmi e degradarmi. 

Mi avvinghio al reale con il dolore, con l'acido incessante in corpo. 

E poi, all'improvviso, è tutto finito. Apocalisse, e un attimo dopo tutto è statico. I brusii svaporano, la tortura si attenua e io ansimo a terra affannosamente e trascurando il presente e lo sguardo dell'Uomo Cieco alle mie spalle persiste. L'Uomo Cieco si è infiltrato nella stanza oggi stesso. È emerso all'improvviso in un angolo, accoccolato e inerte, i gomiti poggiati sulle ginocchia ossute e le mani arcuate in grembo. Le palpebre sprangate, la pelliccia capillare cinerea, vizza, una pergamena tesa sugli zigomi aggettanti. Rimane saldo all'angolo, abulico. 

L'Uomo Cieco non strilla se mi appresso a lui e gli carezzo delicatamente il braccio o la spalla; non trasale e non manifesta alcun segno di vita. 

Adocchia.

Nella stanza c'era anche una donna gnomo malaticcia. Si è flessa i lombi e le sono crollate le zampe. Il suo volto è deflagrato come un frutto maturato oltre misura, affluendo il suo liquido vitale cremisi. Ora trasuda dal soffitto, il sudore di una fronte febbricitante, il diluvio purpureo di un cielo a pezzi.

Nel barlume della luce si dislocano spettri titanici, sfavillanti, oleosi. Le loro voci si fanno fendenti. Le loro voci sono più lascive. E salmodiano ronzii cupi, fischi che rivelano fatali segreti, segreti divenuti acini d'uva precoci, quelle novelle vane di leucischi, leucischi, leucischi, e agi…


Giorno 1534
6 Maggio 1978

Mi ha fatto visita una fata.

Ha svolazzato nella mia stanza su piccine ali e il suo fascino si irradiava mentre oscillava prudentemente nella brezza. Il suo grembiule biancastro era sobrio, modesto, tutt'altro che fastoso. Si adattava alla sua sagoma fiaccamente, saldato in vita da una cintura. Il viso ellittico cereo, i capelli corvini mossi e raccolti in una treccia. Gli occhi tormalina come le buccole tonde. 

Una consacrazione: la benedizione di una fata con occhi opalini, capelli mori e labbra da cherubino è una parvenza fugace di brio. L'ho osservata incredulo. Mia madre spesso favoleggiava di loro, paladine della foresta, danzatrici, divinatrici. 

Pinete e radure, rivi e torrenti, laghi tappezzati di muschio e scalinate d'alberi: a tramontana di Stirling vi è la selva incantata di Delia, lussureggiante di felci e di verde in un'umida brezza marina; il regno forestale delle fate è infestato dai bagliori delle loro anime ingemmate, dal fruscio dei grilli smarriti, dallo scroscio dell'acqua nei fiumi e dai lampi dell'arcobaleno; Il suolo polito, una brina soffice e sedativa al mattino.

Il tocco di una fata: seta, pelliccia, ovattato...

Ed eccola qui, dinanzi a me. 

Mi si è stretto il cuore.

Non pensavo che le fate gridassero quando le accarezzavi. 

Era il suono di una terra sterile. Mi sono impaurito quanto lei. Spolmonava, balzava con gli occhi fiammeggianti, e aleggiava via. Parodiava il suono di un allarme, un rimprovero. Un frangente: io ero nocivo. L'ho avvicinata all'orecchio e ho auscultato gli organi che le riverberavano il corpo. 

Le sussurravo garbatamente: domandavo del suo nome, delle sue utopie, dei suoi insuccessi. Le chiesi delle altre e lei mi disse che mi discernevano sfacciato. Quando le sfioravi le ali gridava ma non versava mai lacrime. Sapeva di fango, un retrogusto amaro. Il suo volto così tenacemente disapprovante… 

D'un tratto, si girò e volò via. 

Le pareti hanno ripreso a comprimersi, insabbiandomi animosamente. Sono passati più di mille anni e i secoli temporeggiano senza sosta. 

L'Uomo Cieco tace se lo accarezzo. Mi chiedo perché le fate non lo facciano...


Giorno 1535
7 Maggio 1978

Un orco si è affacciato alla mia porta. La sua ossatura ciclopica incombeva sinistramente sull'uscio. I suoi incisivi si erano conglobati con i canini inferiori forgiando una mascella affine ad una una scimitarra adunca. Una collana in cuoio con una zanna appesa ad essa pendeva attorno al suo collo tozzo. Lo zigomo destro era infossato, le gote e le iridi oculare bucherellate da fori tondi. Umanoide, in un certo senso, ma gli orchi sono ben altro. 

Essi sono un'idea platonica: quattro piedi e antropomorfi, ma ferini, zannuti, e pire di steppe nelle vene. L'archetipo del nemico, la bestia da decapitare, martirio per i dei. 

Vestiva un carapace a piastre ferrigne e un'ascia in quarzo. Con il suo sguardo rude, parlava a bassa voce. Apparentemente mite, con una collera eclissata che lessava a rilento mentre mi calunniava di delinquenze sadiche, e sentii il batticuore pulsare e lo stomaco smaniare, l'antipatia e un'altra sensazione dolciastra e pepata: sorbivo una pesca. Il clima è mutato al menzionare della mia genitrice: pacato. Abbiamo colloquiato undici mesi, ed era catartico novellare dei lutti familiari, l'istante uggioso in cui avevo racimolato la salma della mia defunta surrogata, stremata dalla fame nel corso del nostro tardo vagabondaggio. Le sopracciglia dell'orco si aggrottavano sovente come un fioco tintinnio di campane. 

Ah… una fulminea brezza profumata come un giardino di gelsomini in piena estate, le creste delle onde d'erba, strisce d'onta che acquerellano il sole zafferano della mia fanciullezza.

L'orco prometteva un torneo sotto le stelle in cui avrei rivaleggiato un gufo dalla parrucca bianca, al cospetto di altre creature del bosco. Se avessi trionfato, mia madre mi avrebbe accolto sul dorso di una cometa scarlatta. Sentivo il brivido di quell'agone e i suoi occhi balenavano quando pronunciò quelle parole reggendo la sua ascia superbamente. Captai un'eccentricità quando l'orco mi posò una mano rozza sulla spalla, il suo tocco come una stretta di mano che si protraeva da troppo tempo.

Le sue mani callose, la dura armatura occultata dal sudiciume di innumerevoli zuffe, il tatto freddo della sua ascia. Udite: le osservazioni roche dell'orco che sputava blasfemie, l'etere oberato di tensione, un momento di smarrimento. 

Tale grazia...

 

Giorno 1537
9 Maggio 1978

Sono stremato. Sono moribondo da secoli e i miei muscoli dolgono dal tremito incalzante. Sono avvizzito e nocchiuto. Il derma germoglia come ceneri di boccioli: si schioda, si aizza, gocciola e surroga le viscere, l'ossame, finché non sono asciutti. Le vene oculari si affievoliscono e scompaiono.  

Ovunque mi incammini vengo accolto da sguardi diffidenti. I medici si aggregano e confabulano della mia "condizione" come se non fossi altro che un porcellino d'india nei loro efferati esperimenti. Parlottano di esiliarmi sotto i ferri, di scindermi il teschio. Almeno le pillole e le scosse sono cessate dopo avermi reciso lo zelo. 

I tentativi di rievocare le vicissitudini degli ultimi giorni sono infruttuosi: strambe annotazioni sul mio diario scribacchiate in un gergo indecifrabile,  creature mistiche, uomini ciechi. Una beffa di cattivo gusto. I pazienti del reparto si relazionano bizzarramente e suppongono che io sia divenuto un bastardo commutato. I mugoli di John riecheggiano nei corridoi: evangelizza che gli astri mi lederanno con saette. 

Ogni gesto postula una fatica immane come se stessi portando appresso il carcame della mia surrogata. Il peso del globo grava: un mantello di piombo calca, spreme il  diaframma. La vista spesso diluisce nel nero, imbroglia i margini e ogni corpo si fonde con l'altro a mimare gli acquerelli che si impastano sulla carta bagnata. Un'inquietudine mi barbica al suolo, ingrassa le palpebre in pile di neve minacciandomi di serrarle e di sminuzzare quella poca luce che ancora filtra attraverso la foschia. I respiri risuonano vacui. 

Ogni passo è una disputa contro una forza astratta che mi bistratta a terra: una marionetta i cui fili vengono tirati troppo. I piedi anestetizzati, intorpiditi, sono appendici forestieri incollati al corpo. E mi sembra di veleggiare con la carne pressata in avanti da genuino disorientamento e da un sapore farinoso sulle labbra. 

E incespico nei corridoi, la mia mente spiega le vele alla deriva, le reminiscenze sfrecciano come vetusti rulli di pellicola di un tempo in cui ero beato e brillo. Ma quelle illusioni sgusciano via, si intercalano con l'efferatezza, il perenne tentennamento. Vengo corroso da spasmi e stringo il petto per rabbonire il dolore che vi freme. Mi stanno lacerando dall'interno disfacendomi un po' alla volta in chicchi di polpa.

La mia psiche si ottenebrerà a oltranza, non agirà conformemente. Persiste una mole arzigogolata di pathos: scetticismo e una foga rovente che preannunziano di ingollarmi del tutto. 

Dovrei fendermi le membra con il ferro…

Giorno 1540
12 Maggio 1978

Trenta minuti e verrò freddato. 

Mi sto accingendo all'ineluttabile fine, domandandomi se questo sia il preludio di un crescendo finale o un'altra strofa reiterata della medesima amarognola canzone. Ho una frenetica fame di ristoro: la costernazione assordante, il cosmo in stasi.

Forse è una prepotente burla strumentata da numi inavvertibili a tergo di una vetrata irreale…forse sono loro che sganasciano da remoto della mia malasorte. Man mano, sto depauperando me stesso; ogni vena e arteria si sta smorzando adagio fintantoché non rimarrà più nulla da dare. 

E poi... eccola lì. Mi affianca con le sue ali fini, eccelse: un mantello cangiante. Le mani gelide ancorché le loro impronte scaldino la mia psiche seviziata. Il delirio sfuma in mormorii vaghi e le sue parole mi gremiscono d'amore: oh, beneamata madre! Un'estasi di velluto oltremare. 

Le lacrime ingentiliscono questa pagina ocra, non vociano più alla miseria. Intonano mielate liriche inalando e frantumando i minuzzoli di male.

La mia lotta è giunta al termine; con questa pagina mi congedo, cari lettori. Mi accomiato con un sorriso e chissà che fato attende oltre il patibolo, quando avrò gettato ogni mio ormeggio lasciando andare la presa decisa su questa stilografica. E con un ultimo respiro strizzerò le palpebre, soccombendo alla bruna caligine di questa stanza bianca illudendomi che ci incroceremo ancora.

Accettate questi singhiozzi come il mio lascito.

Marie Thiam